questa riflessione è un po’ la continuazione di quella di ieri. Nella mia vita ho frequentato una serie di tavoli. Pochi i tavoli di lavoro, di più tavoli come intesi come mensa. Erano tutti abbastanza grandi. Quello di casa mia. Eravamo in 12 su quel tavolo, almeno per un periodo. Quello del seminario, anche qui grandi tavolate. E poi quello degli oratori, dei campeggi, delle parrocchie, del patronato, sempre tavoli superaffollati. E anche adesso il tavolo con le suore non è meno numeroso. Insomma l’idea di mangiare su un tavolo da solo mi crea in certo disagio. Non rientra nelle mie corde, nei miei pensieri. Il tavolo del gruppo end che di volta in volta cambia a secondo di dove ci troviamo. Mi pare che Gesù era un buon frequentatore di tavoli e questo gli ha procurato tante critiche. L’ultimo suo tavolo è quello del cenacolo con l’ultima cena. Vi è un tavolo che ho frequentato per anni e che è stato di una forza e di una simbologia bellissima. E quel tavolo è stato per anni il mio altare preferito, la mia mensa più ospitale, il luogo dove ho incontrato la sofferenza e l’amicizia insieme. Pensando al tema di ieri posso dire che quel tavolo è stata la mia chiesa per anni. Una chiesa in casa, come i primi discepoli. Era il tavolo della casa di don Roberto all’agro. Tavolo per il pranzo e la cena in genere io lui e i badanti. Io a parlare, lui con la fatica di mangiare, di ascoltare e con una gran voglia di parlare e i badanti con il compito di imboccare e dare una mano a don Roberto. Poi quel tavolo a volte si riempiva di gente, erano i mercoledì sera, le domeniche, le feste grandi, l’incontro con l’end. E allora quel tavolo diventava una festa. Lo stesso tavolo era stato il luogo attorno al quale si è raccolta per anni la comunità. Da quando don Roberto si è ammalato, quel tavolo la domenica era l’altare per la messa. Insomma in quel tavolo era raccolta una vita, era celebrata una vita, era sofferta una vita. Quando dico che ci vuole prudenza nell’aprire le chiese non voglio sminuire il valore della chiesa, ma è come se questo tempo avesse risvegliato in me in maniera prepotente un sogno: la chiesa domestica, la chiesa delle origini, la chiesa attorno al tavolo di casa. Non sto rinnegando l’edificio chiesa, torneremo a celebrare come comunità. Sto dicendo che noi credenti abbiamo la grande occasione di rivivere di quel tavolo semplice ma vero che erano le nostre famiglie, le nostre case, i credenti dei primi giorni. Perché invece di pensare al ritorno al futuro, cioè alle stesse modalità di prima, non ci prendiamo del tempo per riflettere e mettere in atto cre più a misura di piccoli gruppi, catechesi famigliari, celebrazioni di famiglia. Ma soprattutto perché non facciamo in modo che il laico possa essere messo al centro. E non secondo quella formula che dice il laico al centro, ma dove il prete forma, guida, sta al centro, si assume tutte le responsabilità della chiesa. Certo al centro vi è il Signore, ma con un tavolo dove il laico sta seduto insieme a tutti, con pari dignità. La chiesa domestica è come un percorso che è in parte nuovo e quindi un sentiero da inventare. Il prete che non sta al centro, ma che mette al centro la comunità che ascolta, celebra e vive il vangelo. Non più un tavolo con un posto a capotavola, ma un tavolo dove ciascuno sta accanto all’altro e serve l’altro, e conosce l’altro e mangia allo stesso tavolo. Un tavolo che dice la famiglia dove il capofamiglia sta a tavola come colui che serve. Le chiese si apriranno ancora, ma con una consapevolezza nuova, di essere famiglia seduta allo stesso tavolo. E sogno seduti allo stesso tavolo poveri e ricchi, bianchi e neri, nord, sud, est, ovest del mondo, insieme a condividere lo stesso pane e vino, che ha il sapore della pace universale.
E’ molto bella questa riflessione sul tavolo,grazie don ,ho ricevuto un dono :ho fatto in tempo a vedere e restare per un paio di volte al tavolo dell’Agro…dove c’era don Roberto….