Si parla di comunità. Questo tempo del covid ha risvegliato questa parola dal torpore in cui era caduta. Se ne parla nei consigli pastorali, nei gruppi, nei documenti, nei libri. Se ne parla nella società civile, se ne parla nei convegni. Buona cosa che se ne parli. Mi hanno insegnato che quando si parla troppo di una cosa è perché questa manca e quindi è come se parlandone rischiamo di far rinascere quello che manca, almeno così tutti speriamo. È un desiderio di questi tempi. Ma che forma ha questo desiderio? Non è che noi facciamo i conti non con il desiderio di comunità, ma con quello dell’individualità? Una individualità vestita di quella pietà cristiana o di umanesimo laico per cui alla fine è l’individuo che fa del bene e non la comunità che opera insieme verso chi è più debole. Tutto è lasciato al leader di turno, all’iniziativa personale. E poi questi eroi individuali vengono premiati come eroi della comunità. Ma io vorrei veder premiata la comunità. Non oso arrivare alla parola indifferenza perché mi sembra già un giudizio. Il tempo del covid ci ha consegnato azioni comunitarie meravigliose, soprattutto nei nostri paesi, insieme a segnali di paura e di chiusura. Ma è indubbio che qualcosa è successo. Ho trovato una frase di papa Francesco folgorante al riguardo: “quanto desidero che le nostre comunità, le nostre parrocchie diventino isole di misericordia nel mare dell’indifferenza?” isole di misericordia. Forse la prima forma di comunità che dobbiamo tutti riscoprire è questa benedetta parola misericordia. La cosa che mi inquieta non è la misericordia, ma il mare dell’indifferenza, io aggiungerei l’oceano dell’individualità. Se vi è solo un’ isola di misericordia, un’isoletta in mezzo all’oceano dell’indifferenza non siamo messi proprio bene. Io sogno il contrario: un oceano di misericordia con dentro un’isoletta di indifferenza. Eppure sembra che noi navighiamo proprio dentro questo oceano di indifferenza che alla fine ci impedisce di essere umani. Due esempi di oceano di misericordia. Ricostruire comunità misericordiose non vuol dire moltiplicare le celebrazioni. Penso ai piccoli paesi. Non è forse la messa della comunità che vale per questi piccoli paesi? E non invece il moltiplicare le messe nella speranza che in tanti possano venire? Che poi non vengono lo stesso! Un celebrare insieme la misericordia. Un celebrare ben preparato dove la gente si sente accolta, dove la parola parla di quella comunità non in termini moralistici e di esortazione, ma in termini di ricordo, di misericordia e di speranza, dove il coro fa cantare la gente, dove il saluto finale non è: speriamo di vederci ancora settimana prossima, ma, andiamo a casa a fare comunità. Fare comunità non è costruire reti sociali dove ciascuno mette la sua quota oppure, peggio ancora mantiene la sua quota di presenza o di potere, nell’impossibilità di condividere l’unica domanda necessaria: ma quali sono i bisogni che vediamo? E di conseguenza quali sono le azioni che possiamo fare insieme? Dove sono i gesti della misericordia che una comunità insieme può praticare? Attendo con trepidazione la nuova lettera di papa Francesco dal titolo fratelli tutti. Magari li dentro troverò indicazione preziose per le nostre comunità civili e religiose. So che anche il papa in questi giorni ha bisogno di avere attorno fratelli misericordiosi e non dediti ad altro. E allora questa riflessione è dedicata proprio a lui.
Leggendo la tua riflessione non posso non condividere un pensiero che sempre più mi logora. La comunità si è dimenticata delle famiglie. E non dal punto di vista caritativo, quello no, in quasi tutte le parrocchie i centri di ascolto funzionano bene e sono vicini alle famiglie bisognose, ma dal punto di vista spirituale. Le nostre messe sono assolutamente inadatte alle famiglie con bambini, e le regole anti covid hanno reso questo ancora più evidente (non posso certo gironzolare per la chiesa con una bambino che si sta annoiando talmente tanto da non farcela a stare fermo). Canti noiosissimi, prediche super mega esegetiche ma che non parlano ai piccoli e sembra una gara a chi la fa più lunga…io ho perso il piacere di partecipare alla messa perché se ci vado con le mie figlie è un incubo ( e quando ci ho provato un’unica volta post covid sono stata anche rimbrottata da una signora perché le bambine avevano disturbato), se ci vado senza non mi senti completa e a posto. Credo che la Chiesa debba farsi due domande sui piccoli e sulle loro famiglie!