venerdì 9 novembre

di | 9 Novembre 2018

giobbe - francesco betti Gb  2,11-13

[11]Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. [12]Alzarono gli occhi da lontano ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. [13]Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.

Commento

Inizia da questo momento nel libro di Giobbe una serie di dialoghi tra Giobbe e questi tre amici che vengono per consolarlo e per dare una spiegazione di tutto quanto è accaduto. Sono tre saggi che si mettono a piangere (scena orientale), partecipando a loro modo al suo dolore, alla vista della disgraziata situazione di Giobbe che è sul letamaio. Riconoscono che è lui ma è completamente sfigurato. Per sette giorni e sette notti si siedono vicino a lui e nessuno parla,  non ci sono parole, troppo grande è il suo dolore. Lo con-solano: riempiono la sua solitudine con la loro compagnia, siedono per terra con lui. Vengono a consolarlo, ma si intuisce che il loro arrivo sarà occasione per aggravare la pena al paziente. Nessun dubbio che stando ai costumi dell’antico Oriente il loro pianto, il lacerarsi le vesti, il cospargersi di terra la testa sono tutti segni espressivi di una grande partecipazione al dolore e questo soprattutto è indicato da quei sette giorni di lutto silenzioso che ricorda proprio il lutto che si fa per un morto. Tuttavia è proprio questo che fa sentire, ad un uomo tanto abbattuto, quanto disperata sia la sua situazione: lo piangono come un morto. È il rischio di ogni grande consolazione di chi è consolatore: provare pietismo non pietà.

Preghiamo

Preghiamo per don Antonio

4 pensieri su “venerdì 9 novembre

  1. sr Rita

    Partirono, ciascuno dalla sua contrada.
    Sentir che un amico è malato, mettersi in viaggio, avvisare gli amici, ritrovarsi insieme in silenzio, accanto al malato. Gesti che nascono da una relazione buona di amicizia. Poi non si sa che dire, che fare…se non lasciarsi andare alle convenzioni della cultura.
    Mi vien da pensare come dovrebbe essere la mia partecipazione al dolore altrui: compatire a distanza? Creare confusione e agitazione attorno al malato e alla sua famiglia? Piangere perché bisogna fare così? Talvolta un abbraccio in silenzio, una parola di vera prossimità, un ricordo condiviso, una speranza intravista, una parola della Scrittura pronunciata nel mezzo di un dialogo.. una preghiera silenziosa fatta di cuore….tutto questo può diventare consolazione.
    Preghiamo per malati e per quanti si prendono cura di loro.
    Una preghiera per mia nipote Elena ne suo compleanno.

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  2. . Elena

    Condividere il dolore non trova facilmente il giusto modo, le giuste parole, i gesti adeguati. Davvero a volte solo un abbraccio, uno sguardo, una carezza possono trasmettere il nostro affetto e la nostra vicinanza. Nel caso di Giobbe, sento che molto forte è l’amicizia dei tre uomini, che partono e si ritrovano seduti per terra, con lui, al suo stesso livello, nel suo stesso dolore. È vero che certe manifestazioni ci spaventano più che consolarci e che non ci sono parole adatte a rasserenarci. Ma la presenza è già di per sé un dono….
    Prego per chi non può essere consolato nel suo dolore. Prego per Elena e per don Antonio.

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  3. srAlida

    La parola di consolazione non è semplice ,il silenzio ,la giusta vicinanza e l’abbraccio ,possono portare consolazione di fronte al mistero del dolore dell’altro/a…….la preghiera è la stessa aiutaci Signore a consolare….Prego per don Antonio,e per Elena ,per chi non trova consolazione e per chi vive accanto ad esperienze di dolore e se cura . Per tutta l’umanità sofferente per vari motivi .

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