Pensavo di mangiare da solo ed invece qualcuno si ferma. E poi uno passa e parla e beve in caffè, qualcun altro taglia l’erba e raccoglie le verdure. C’è chi passa per dare un occhio al faraone. Poi io mi arrabbio un po’ perché si lavora poco. E qualcuno arriva e raccoglie un po’ di lamponi e poi lascia un’offerta. Non capisco mai se siamo una cooperativa di lavoro, una casa, una famiglia. Anche il gatto faraone sgrana gli occhi e non capisce molto di questa casa. Si va e si viene. Si parla e si lavora (questa è parola impegnativa). Poi arriva la fatidica frase che quasi ogni giorno mi aspetto. Ma tu che sei esperto che cosa devo fare per quella questione lì. oppure che cosa devo fare per mio figlio. Ed intanto io giro come una trottola, e non sono esperto di niente. È evidente che siamo prima di tutto una casa e una famiglia che ha la pretesa grossa di lavorare, di insegnare l’arte del lavoro. Tengo buona l’idea di una casa che apre le porte, ma ci sono tutta una serie di questioni non solo legate alla casa, alla famiglia, ma all’educare, al produrre. Doni in casa potremmo dire, ma doni che devono servire per costruire un progetto che, comprendendo l’idea di casa e di famiglia, va oltre, arriva al lavoro, all’impegno, all’apprendimento di un percorso educativo. Oltre la semplice casa. Il problema è che noi separiamo troppo nella vita reale la casa, la famiglia e il lavoro. Sono due luoghi distinti, che non potranno mai combaciare tra loro. Mi ricordo quando ero piccolo, quante persone passavano naturalmente dal lavoro alla casa, dal fare, alla famigliarità. Sembrava una cosa sola: lavoro e casa. La questione produttiva ha diviso in maniera radicale le due questioni. Una cosa è il lavoro dove devi rendere, una cosa è la famiglia, dove se ci riesci ci devi vivere. Io ho una pretesa: tornare a tenere insieme queste due questioni. È chiaro che oggi qui a Rosciano siamo troppo sbilanciati sul fare casa e sul pensare ad un luogo ospitale e accogliente, aperto. Ma è altrettanto chiaro che dovremo pensare anche a come rimettere in careggiata l’aspetto del lavoro, dell’apprendere. Io ho la pretesa di rendere naturale il passaggio tra lavoro e casa, tra produrre e accogliere. Se qualcuno ha dei consigli su come si può fare fatemelo sapere.
Anche fare casa è un lavoro… a volte più pesante di quello di produzione. Il prete per quanto ne so, non fa produzione.. delega.. segue dall’alto, come la mamma mentre i bimbi fanno i compiti a casa:
crea l’ambiente giusto, da’ consigli, procura gli strumenti, organizza le pause rigeneranti. Di solito l’organizzazione vene dai tempi: questo è il tempo del lavoro.. e questo è il tempo delle scambi e altro… comunque in bocca al lupo, l”‘educature” (colui che fa crescere) è il lavoro più bello del mondo.. (nonché quello di nostro Signore…
Buongiorno Don, io penso che per essere casa e lavoro, il lavoro deve essere appagante e emozionante. Seguo su facebook il giardino di Lu, nato da una mamma che ha perso sua figlia e invita altre donne in cura a coltivare e prendersi cura di tulipani 🌷 (che amava la figlia) e ortaggi, che vendono poi venduti a scopo di finanziare la ricerca e la lotta alla prevenzione al cancro all’utero.
In tutto c’è l’amore e la cura che si intrecciano tra terra e persona. Lo chiamano Orto terapeutico perché cura anima e persone, le fa sentire speciali e indispensabili. L’orto non é solo lavoro ma soprattutto cura, é questo il messaggio che deve e può passare, ha volte basta anche solo cambiare un nome e un impostazione dell’esserci, in un reciproco scambio di dare e avere, nella cura dei dettagli, nel vedere spuntare il tuo fiore e poi coglierlo in un vaso appena é grande, in modo da sentirsi, in modo semplice ma appagante, protagonisti nella crescita della pianta e di sé stessi.