Mi sento ogni tanto nella mia terra promessa. Sono le cose che faccio, i desideri che coltivo, il lavoro che mi piace. C’è solo un problema dentro tutto questo racconto. Il mio che mi frega. Sono i miei sogni e i miei desideri. La mia terra promessa si identifica con quello che sono io e niente di più. È successo così anche al popolo degli ebrei: quando si è troppo identificato con la sua terra promessa ha finito per sentirla suo possesso e di conseguenza ha smarrito il senso proprio e vero di quella terra. Quando mi identifico con tutto quello che faccio, pensandolo opera mia, smarrisco il senso di quello che faccio. Se non accetto il limite, se mi identifico troppo con la mia terra promessa ne tradisco il senso e mi perdo nel vuoto e nella non accettazione del limite della terra promessa che non è mia. Stare nel vuoto implica il fatto che devo navigare dentro la mia fragilità. Stare nel deserto vuol dire che devo stare nella precarietà della vita. Quella della fragilità e quella della precarietà non è una condizione ideale se guardo questa condizione dal punto di vista del mio, il mio sogno, la mia terra. Diventa invece la condizione ideale perché mi permette di considerare il tutto come un attimo di passaggio nel deserto. La meta allora non è la mia terra promessa, il mio sogno, ma il cammino nel deserto della fragilità e della precarietà. Nel deserto non ho niente e posso solo confidare nella provvidenza che accompagna la mia vita, ma nella misura in cui decido di far diventare mia una terra, il mio sogno promesso, dichiaro anche e nello stesso tempo di non aver più bisogno della provvidenza perché ho tutto quello che mi serve. Un cammino nel deserto è meno agevole che due passi nella terra terra promessa. Ma un cammino nel deserto è sicuramente più autentico e più carico di speranza perché è un cammino proteso verso la terra promessa.