Mia mamma e mio papà mi portavano al tradizionale giro dei cimiteri. Bergamo, Sforzatica, Lallio. Erano le tre mete. poi si mangiavano le fave dei morti e il nonno faceva recitare invece del rosario i 100 requiem per i defunti. Quasi, quasi preferivo il Rosario. In chiesa veniva montato un grande catafalco con un panno tutto nero con decorazioni dorate. Faceva impressione in mezzo alla chiesa. Le leggende di noi chierichetti dicevano, che lì dentro in quel robo ci mettevano le casse dei defunti. Io non l’ho mai visto fare e quindi per me è rimasta una semplice leggenda. Non c’era dolcetti scherzetti, ma il triduo dei defunti. Il prete usciva vestito di nero e il coro cantava prima il de profundis e poi il dies irae. Mi ricordo che durante il dies irae ad un certo punto qualcuno dal coro batteva come un colpo. Noi ci spaventavamo e a quel punto facevamo la promessa di fare i bravi. Poi c’era la predica del predicatore. Era tutta centrata sui novissimi, cioè Morte, giudizio, inferno, paradiso. in genere il paradiso era poco, di giudizio un po’ di più, tanto inferno. La paura per un attimo aumentava e le promesse di fare i bravi si moltiplicavano. poi quando si usciva di chiesa la paura svaniva, i propositi se ne andavano e ricominciavo a fare casino come sempre. La prima settimana di novembre funziona così. Tra cimiteri, defunti, chiesa, preghiere per le anime dei defunti. Non ci capivo niente, nemmeno quando il prete parlava della vita eterna, del paradiso, però tutti eravamo presi da quel vortice che era la memoria dei defunti. Poi il catafalco nero in chiesa svanì, in paese comparve la festa di halloween, alla quale mia madre impedì tassativamente di partecipare, al cimitero comparvero tanti fiori, il predicatore si dimenticava di parlare dell’inferno e ci parlava del paradiso. tutto era cambiato. Ed oggi ancora tutto è cambiato. Non rimpiango quel tempo, ma oggi non ho la stessa dimestichezza con la malattia e il morire. Forse mi ha aiutato a riconcialirmi in parte con la malattia e il morire la vicinanza a don Roberto. Con la malattia e la morte in casa si conviveva. Lo zio, il nonno, qualche parente. Si spegnevano nel letto. Con mio papà è stato così, con mia mamma sarà diverso. Non ho detto meglio o peggio, ho detto diverso. I tempi sono troppo diversi per reggere il colpo di un malato grave in casa. Non ce la facciamo quasi più. Eppure anche oggi siamo chiamati a tenere botta al morire. La vicenda del covid poi ci ha messo direttamente a confronto con il morire solo, senza il funerale, senza un degno saluto. Il covid ci ha rimandato tutta la fragilità della vita umana e delle sue relazioni, anche nel momento del morire. Che cosa dobbiamo temere? Io credo che dobbiamo temere il male. La morte era ed è la grande madre dei viventi, come la madre terra. E la terra rigenera vita nuova, così il morire rigenera vita nuova. Rigenera nel dolore, come una madre che nel dolore dà alla luce un figlio. Rigenera nella memoria grata: noi diciamo, ti porto nel cuore. Sei vivo nella memoria del mio cuore. Forse l’unica morte che rimane per sempre è il nostro male. Il male impedisce a noi di rinascere, di risorgere. Ma il male impedisce anche alla vita e agli altri di rinascere. Il male fa morire tutto. Invece il bene fa rinascere a vita nuova, il bene celebrato e vissuto nell’arte di amare è la resurrezione. Amare è rinascere. qui su questa terra ogni giorno rinasciamo grazie a chi ci ama e all’amore che possiamo donare. Domani rimarrà l’amore ricevuto e donato per sempre. Rimarrà nel mio corpo, nella mia anima, nei miei affetti. La terra impasta i suoi nuovi figlioli e li impasta dell’amore donato e ricevuto, lo impasta mescolandolo con l’amore più alto di tutti che è l’amore di Dio.