In questa logica del cambiare la domanda che mi sono fatto oggi è semplicemente questa: io posso accettare di cambiare, posso lasciare che qualcuno porti un seme nuovo, ma della mia storia che cosa ne faccio? Che cosa ne faccio di tutto quello che ho seminato io? In queste domande non c’è nessuna pretesa, solo una domanda: come mi pongo io di fronte a tutto questo cambiare e lasciare che altri portino semi nuovi per una vicenda nuova? In genere io mi pongo in quella postura che in apparenza accetta, ma che dentro cova non risentimento, ma sicuramente una forma di: ci sono ancora anche io. Mi viene in aiuto un padre: quello misericordioso della parabola. Dicendo che mi viene in soccorso non so dicendo che il soccorso mi guarisce da quella cosa che mi ruga dentro e che mi porta a dire: e io chi sono? Mi aiuta a comprendere, ma se tutto questo non è interiorizzato non mi aiuta. Il figlio arriva con la sua pretesa: dammi la parte che mi spetta. L’eredità va divisa subito perché io devo fare la mia vita. quel padre, secondo la legislazione del tempo poteva denunciare il figlio per quella pretesa. Era nel suo diritto. Cosa fa invece il padre? divide l’eredità, lascia andare il figlio e poi si mette in attesa. In questo momento non mi interessa quello che fa il figlio, mi interessa invece il padre che non si fa antagonista del desiderio del figlio, che non si mette contro il desiderio del figlio, ben sapendo che poteva essere fallimentare. Il padre rinuncia al suo diritto di potere, oserei dire di onnipotenza e divide l’eredità, lascia che il figlio possa piantare il suo seme. Sembra che il padre qui debba scomparire e forse un po’ è così, si abbassa e aspetta il figlio. Aspetta e si prende cura di lui e del suo seme, dentro una forma non di primato del padre che la sa lunga, ma dentro la forza di un amore che c’è e ci sarà sempre.