ieri non ha funzionato qualcosa e se non sbaglio questo pensiero non è arrivato, almeno così penso. eccolo il pensiero di ieri. Una parola detta può creare un’unità perfetta, ma lo può fare a scapito della diversità. E quando una parola crea questa unità perfetta per conto mio c’è qualcosa che non va. E lo dico così quello che non va: o è un atto di sottomissione alla parola detta, da parte di chi ascoltando si sottomette ad una parola forte o è una parola che ci ammalia e allora vi è una forma di sottomissione che sembra quasi un plagio. Credo che la pubblicità funzioni più o meno così: è una parola che ci ammalia, che ci seduce, ma che in apparenza ci fa sentire liberi. Nessuno dirà mai di fronte ad un acquisto che è stato ammaliato dalla pubblicità, ma che ha scelto liberamente. La parola invece quando è vera, quando è rispettosa, crea diversità, perché fissa come una distanza tra chi pronuncia una parola e chi l’ascolta. Si tratta di una distanza che dice che i due sono diversi e che tale diversità va accettata, va gestita, va rispettata. Questo secondo me è uno dei punti più difficili da affrontare e da vivere in una relazione. Infatti noi cerchiamo sempre con le nostre parole di trovare il modo di creare una unità di intenti; in realtà ci rendiamo conto che nel pronunciare parole creiamo solchi di diversità. Non ho paura delle diversità, ho paura dell’uniformità, del tutto uguale. Certo, in apparenza è molto più semplice gestire l’uniformità che la diversità. Credo che la grande sfida dei nostri giorni, come d’altronde lo è sempre stato, è quella di valorizzare le diversità e sulle diversità costruire fraternità. Interessante percorso: parole che marcano la diversità, parole che ricompongono non una uniformità, ma una comunionalità, dove le differenze rimangono e vanno a formare il grande puzzle della fraternità universale. È solo così che si ottiene la convivenza umana e la convivenza nella chiesa.