Trovo queste parole: Nahamù nahamù ’ammì: «Consolate, consolate il mio popolo» (Isaia 40,1). Sono parole scritte e attribuite al profeta Isaia o forse a qualcuno che si ispira a Isaia, certamente sono parole che sono finite nel rotolo di questo grande profeta. Niente di più di questo consolate il mio popolo. La cosa mi incuriosisce e allora approfondisco un poco, diciamo che approfondisco quel tanto che basta per far partire nella testa un pensiero. E così scopro che sono parole scritte in esilio, nel massimo della disperazione di un popolo. Qui il profeta non da annunci di vittoria contro il nemico, chiede solo consolazione ed è interessante questa cosa, perché noi nel tempo della prova non vogliamo parole vincenti, ma parole di consolazione. Questo è capace di fare un profeta: trovare parole di consolazione nel tempo della prova e del fallimento. Per paradosso quello che sembra il fallimento umano alla fine ha come generato parole e di gesti di meravigliosa cura e consolazione verso l’altro che soffre. Pensate al video di ieri di quella bambina che porta la sua sorellina a spalla: questo è un segno di consolate, consolate il mio popolo. Pensate se le parole della tv e dei social e di chi ci guida in un colpo solo si trasformassero da parole di guerra in parole di consolazione, da parole di forza e di vendetta in parole di consolazione. Io credo che tutto cambierebbe. Nel momento della distruzione, della fatica il profeta è colui che trasforma le parole e i gesti forti in gesti che dicono Nahamù nahamù ’ammì: «Consolate, consolate il mio popolo» .