Ieri descrivevo quello che io con alcuni amici non sogniamo come comunità. Oggi e magari anche oltre provo a descrivere quello che io e alcuni di noi sogniamo come comunità. Un primo dato importante: sono dedito alla comunità, ma non ne divento colui che vive solo di questa. Non siamo qui a dire che c’è un liberi tutti e che la comunità è l’ultimo dei pensieri. Sono qui ad affermare che la sola dedizione alla comunità non va bene, o meglio la dedizione che prevede solo quello che sembra della comunità non funziona. La dedizione ci vuole, ma deve essere una dedizione che non uccide la bellezza della vita di ciascuno, ma che valorizza la bellezza della vita di ciascuno. La comunità è veramente generativa quando si aiuta la persona a non perdere la bellezza della sua unicità, a sua volta la persona deve trovare il modo di mettere a disposizione della comunità la bellezza della sua unicità. Non si evaporizza il chi sono io, ma nemmeno si vive dentro tanti io tutti diversi. La comunità è come un bravo artigiano che costruisce su misura il suo capolavoro. Di fatto sono le persone con la loro originalità che danno una forza generativa alla comunità. La comunità è appunto l’artigiano che lentamente da forma all’originalità di ciascuno il quale mette tutto questo a servizio della comunità. C’è allora come una speranza nella comunità che sogno io – noi. Speriamo di prendere tante bellezze di tante storie diverse e di fare comunione non attorno ad un’ideale, ad un ministero, ad un carisma, ma attorno al sogno di generare fraternità perché un artigiano ha saputo dare forma alla bellezza della vita di ciascuno e ha poi chiesto di vivere questa forma di bellezza a servizio del mondo, magari dentro una stessa casa.