Non c’era ancora il covid, c’erano altre forme di influenza, la mia nonna materna si ammala e siccome non c’erano i soldi per comprare la famosa penicillina essa vola in paradiso. Lasciava un marito e tre figli, tra cui mia mamma. erano gli anni trenta. Una prozia che aveva in casa già i suoi figli decide di prendere in casa anche la famiglia di mia mamma. E così quando nasco mi rendo conto alla svelta di far parte di una famiglia allargata. Dove l’allargamento della famiglia era dato solo dalla pietà cristiana e dalla compassione. Non c’erano altri motivi per pensare ad una famiglia allargata. Solo la carità. Sono nato e sono cresciuto così. La carità non andava programmata, ma agita. La pietà non andava studiata a tavolino, ma messa in atto nella casa, nel villaggio, nella quotidianità. Questa non era un’idea, un valore, un progetto, era la quotidianità. E questa quotidianità della pietà non studiata, ma agita deve essermi entrata in qualche cromosoma il giorno del mio concepimento. Tra l’altro dice la leggenda famigliare che sono stato concepito ad Assisi durante il lunghissimo viaggio di nozze dei miei genitori. Lunghissimo perché è passato per Assisi Roma con rientro a casa. E se è vero che il concepimento è avvenuto ad Assisi, qualcosa mi deve essere rimasto di quella carità pratica e quotidiana che è stata di san Francesco e che è stato il nutrimento di tutta la mia giovinezza. E così sono rimasto. Porto dentro nel mio DNA questa carità quotidiana che mi fa dire: questo è da fare così, allarga mani e cuore, e non ascoltare troppo la mente. Vivi di carità. Così sono, e così non posso che essere. Questa carità pratica è una miscela che è fatta di empatia, di pietà, di buon senso, di virtù e di tanto dono. Non faccio fatica a miscelare bene tutti questi elementi; in me nasce spontanea questa miscelatura. So che faccio un sacco di errori in nome di questa pietà quotidiana, so che dietro non c’è un progetto serio. Ma se la mia zia avesse fatto mille ragionamenti seri, non avrebbe accolto in casa un’altra famiglia. L’unico ragionamento serio che ha fatto la mia zia e che ogni tanto emergeva dai suoi racconti che ascoltavo con un miscuglio di attenzione e di meraviglia è stato questo: ma non lascerò da soli quei bambini con il loro papà.. E allora li prendo in casa io. E l’unica parola seria che sentivo dire da mio nonno e dai suoi figli che erano stati accolti in casa dalla zia era un: grazie che non ci hai lasciati soli. Porto nel cuore questi bellissimi ricordi e porto nel DNA la pietà quotidiana e pratica, eredità preziosa della mia zia, di mio papà e di mia mamma.
Credo che il buono, il bello, la carità, la compassione non stiano dietro alla domanda: chi fa che cosa? Credo che queste cose ci interroghino più da vicino con : io cosa posso fare concretamente ora? Forse non c’è neppure la risposta razionale, pensata, c’è l’azione silenziosa, umile, paziente di chi non se le fa neppure le domande. Sa che è giusto fare così, e basta. C’è qualcosa di più semplice?