Ultimo Geremia. Oserei dire l’uomo delle lamentazioni. Riconosco che sono un uomo lamentoso. A cui non va mai bene niente, eternamente inquieto e incapace di decidere, ma le lamentazioni di cui voglio parlare qui, le lamentazioni di Geremia, sono ben altra cosa. Ecco di che cosa si tratta “Voi tutti che passate per la via, considerate se c’è un dolore simile al mio, al dolore che ora mi tormenta: il Signore mi ha afflitta nel giorno della sua ira ardente.” (Lamentazioni 1,12). Sono 5 brani, 5 poesie, 5 preghiere che sono attribuite a Geremia. Sono testi straordinari al cui centro è messa la città di Gerusalemme che, grazie alla voce del profeta, racconta tutto il suo dolore per la distruzione, il saccheggio, la deportazione da parte dei babilonesi. Gerusalemme è paragonata ad una vedova che lancia al cielo tutto il suo dolore e che grida: come mai? Come mai questa devastazione? Vedete che non è la lamentela dell’uomo lamentoso come sono io, ma è il grande grido di dolore per la devastazione che viene innalzato al cielo. È il come mai di ogni generazione che grida il suo dolore a Dio. È il nostro grido di dolore per questo tempo incomprensibile. La cosa straordinaria di queste invocazioni è che il grido salta fuori dall’uomo come un urlo, perché così vanno urlati i nostri dolori, non devono essere soffocati, in una forma di sopportazione o spiritualismo che chiede di avere tanta pazienza, tanto poi tutto passerà. Ma le lamentazioni non si limitano ad un grido, chiedono consolazione. Le nostre piazze lanciano un grido, ma forse non cercano consolazione. Il come mai trova una risposta nelle lamentazioni in una parola: ingiustizia. Molte delle sofferenze dell’uomo sono causate dall’ingiustizia dell’uomo stesso. Non è l’unica risposta al male, ma vi è anche questa via da sondare, da cercare. Il creato soffre e grida perché è stanco della prepotenza degli uomini. Il povero, il malato soffre per l’incuria di tanti uomini. La storia grida perché l’economia è solo di puro profitto. Il profeta Geremia chiede consolazione, ma chiede anche giustizia, nel senso non di vendetta, ma di un ripristino di un ordine buono del creato e delle relazioni. Ma in questa lamentazione, in questo grido resta come aperto uno squarcio che il testo delle lamentazioni narra così: “Per questo piango e dal mio occhio scorrono lacrime, perché lontano da me è chi consola, chi potrebbe ridarmi la vita», cioè il Signore, la sorgente della vita e della speranza (1,16). Essa protende le mani, abbattuta nella polvere, e grida: «Guarda, Signore, quanto sono in angoscia!» (1,20). La domanda finale che suggella la quinta e ultima Lamentazione lascia aperta la via all’attesa, pur nello scoramento: «Ci hai forse rigettati per sempre, e senza limite sei sdegnato contro di noi?» (5,22). Potremmo scrivere anche così: non ci hai rigettato per sempre vero, Signore? È vero che ti ricordi ancora di noi? Non ci può essere uno sdegno per sempre nel Signore e quindi la lamentazione lascia spazio alla speranza.