La storia di Mosè e di Miriam viene da lontano. Viene da antenato, un sognatore venduto dai fratelli in Egitto, qualcuno dice per gelosia e invidia. Il suo nome era Giuseppe. Coccolato e prediletto dalla mamma Rachele e dal Padre Giacobbe. Aveva una tunica tutta sua Giuseppe, gli altri fratelli no. Se ne stava in casa a pensare e a sognare Giuseppe, i suoi fratelli sgobbavano nei campi. Mi vengono in mente come due categorie di persone i pensatori e i lavoratori, dove una categoria rischia di disprezzare la categoria dell’altro. E non deve essere così. Eppure Giuseppe, il pensatore e il sognatore è capace di diventare un grande in Egitto. Non si perde d’animo quando viene venduto schiavo, si organizza. Ha una qualità: pensare, interpretare i sogni, organizzare uno stato e utilizza questa sua capacità al meglio. Come sono contento di Giuseppe! Non tanto del fatto che sogna, ma che sa utilizzare al meglio quello che la vita gli ha regalato. Come vorrei non perdermi d’animo di fronte ai miei fallimenti! Come vorrei invece fare come Giuseppe: prendere in mano quello che la vita mi ha regalato e utilizzarlo al meglio per me e per gli altri. Forse nel sangue di Mosè è rimasto il dna di quel suo antenato che organizzava, guidava, gestiva un popolo intero. E Miriam che cosa ha preso dal suo antenato? C’è un particolare affascinante della vita di Giuseppe che Miriam ha ereditato. Quando viene la grande carestia su tutta la terra, Giacobbe manda i suoi figli a comprare grano in Egitto, che, grazie alle politiche agricole di Giuseppe aveva i magazzini pieni. I fratelli scendono in Egitto, sanno che c’è un uomo potente a cui devono inchinarsi, ma non capiscono che è il fratello. Giuseppe invece li riconosce ma lui non si fa riconoscere subito. Se leggete quelle pagine della genesi sono di una rara bellezza; vi è come un via vai continuo dalla terra di Canaan all’Egitto. E non era un viaggio facile avanti e indietro nel deserto. Questo avanti indietro non è la vendetta di Giuseppe nei confronti dei fratelli che lo avevano venduto schiavo. Non è nemmeno la forza del potente Giuseppe che schiaccia il debole che sono i suoi fratelli. Non siamo in quell’adesso te la faccio pagare. È invece il segno dell’emergere della grande ferita di Giuseppe che era stato abbandonato. Le ferite non spariscono in un attimo, ci vuole tempo, ci vuole un viaggio interiore. Ma Giuseppe ha un vantaggio: sogna, pensa e questo gli permette di piangere alla vista dei suoi fratelli e di suo padre. il pensatore può elaborare la ferita, il sognatore può immagine una fraternità riconciliata. Solo Giuseppe riesce in questa impresa del perdono a chi lo aveva venduto. Da sempre aveva sognato quel momento, lo aveva coltivato nel cuore e quando quel momento è arrivato è riuscito nell’impresa del perdono. Per me Miriam ha ereditato l’arte di sognare che lei tramutava in canto e danza.
Grande Giuseppe sognatore che libera il suo popolo di origine. Così come un altro Giuseppe, di Nazareth, che nel sogno crede alla rivelazione e alla missione che Dio gli affida. Sognare con fede è un aprire le porte al regno di Dio in mezzo agli uomini.