Ieri è stata giornata in cui avevo voglia solo di silenzio. E’ stata invece una giornata piena di parole di tutti i tipi. Funzionano sempre al contrario le mie giornate. Quando cerco il silenzio ecco tanto rumore, quando cerco parole ecco tanto silenzio. Eppure dobbiamo fare i conti anche con questo. Con parole che rimangono dentro e con parole che escono perché richieste dalle circostanze. Sono convinto che non è l’arte della retorica, delle belle parole quella che conta. Nemmeno quella dei brillanti parlatori che riempiono il tempo di parole brillanti. Mi sa che la mia parola ha più il carattere del balbuziente, dello sprovveduto che non trova mai tempi e modi giusti e che poi si inceppa e si ferma per non cadere nella retorica della parola. La mia parola non è brillante, ma scomposta e conosce i lunghi silenzi, anzi ha bisogno dei lunghi silenzi. Questa retorica della parola porta gli altri a dire: ma che belle parole! Non voglio belle parole, voglio parole che fanno un mondo nuovo. Ritengo che faccia bene, è salutare alternare il silenzio e la parola. A volte la parola va legata nel cuore per essere come assimilata e poi va lanciata come parola che arriva là nel mezzo della piazza, la in mezzo alla gente. I monaci parlavano di parola ruminata, di ruminatio della parola. Mangiare le parole non è solo ascoltarle e accoglierle; secondo i monaci è riprendere tali parole, masticarle, rimasticarla fino a fare un corpo unico con la parola. È chiaro che per i monaci tale parola da ruminare è la parola sacra. Ma ogni parola seria, va masticata e rimasticata. Ho bisogno di ruminare la parola prima di proclamarla, cioè devo adire alla parola che nasce nel mio cuore, che ascolto, che leggo. Devo assimilare il contenuto delle parole che dico. Ecco perché sono balbuziente. Perché da me non escono parole ruminate nel silenzio.