Senza rendermene conto mi sono accorto solo oggi che ho dato il nome di pace a tutta una serie di cartelle del mio pc. Non tanto perché il contenuto di quelle cartelle parli di pace, quanto perché è una parola che mi ritorna spesso nella mente. quindi c’è pace1, pace2… e via dicendo. Anche il calendario che uso per gli appuntamenti porta il nome di pace. Questo per la verità non è pace, ma shalom che è di più ancora di pace. E quasi sempre quando celebro rimarco sempre la parola pace. Due riflessioni. La prima non so se è una convinzione, un bisogno, una necessità, un dovere. So che questa parola fa parte del bagaglio quotidiano della mia vita, della mia giornata. Funziona così: quando dico qualcosa tale parola ritorna. Forse è solo un vero e proprio desiderio e non tanto un agire, un fare e proporre azioni di pace. E qui nasce la seconda questione: il fatto è che non sempre pratico la pace, non sempre sono uomo di pace. Soprattutto con le parole. è questa la vera questione: non lasciare che la parola pace rimanga parola vuota di azioni pacifiche. La parola deve essere accompagnata dall’agire responsabile, quindi se tale parola è così presente nella mia giornata ne deve seguire che la mia giornata è piena di azioni pacifiche. E così purtroppo non è. L’azione non corrisponde alla parola. Fa parte del nostro limite? In parte credo di sì, siamo fatti così, tra parola e azione non esiste un perfetto legame, una sintonia perfetta. In parte credo che è dovuto anche al fatto che non mi alleno mai abbastanza ad esercitare tale parola. Non voglio praticarla, mi stanco nel praticarla. Cambierò le mie parole? non credo. Cercherò di agire secondo le mie parole di pace? Lo spero, anzi mi allenerò per farlo.